La sua opera, una donna afghana in burqa crocifissa, e’ apparsa improvvisamente. Una provocazione forte, come quasi tutti i lavori di Cristina Donati Meyer, 36enne street artist e attivista da tempo nota per le sue campagne a forte impatto. La statua temporanea, posta dall’artista milanese stessa di fronte alla fontana del Castello Sforzesco, e’ intitolata “le donne afghane ringraziano”. Raffigura il manichino di una donna coperta con un burqa e appesa a una croce. E simboleggia la sorte “alla quale le truppe Usa e Nato in fuga stanno condannando le donne e le bambine afghane”. Una denuncia tanto più’ forte quanto la questione afghana, dopo la presa del Paese da parte dei Talebani, sta esplodendo. Con l’arrivo di profughi a centinaia in Italia. E con l’attentato di giovedi’ all’aeroporto di Kabul.
Cristina, la sua installazione sta facendo discutere. Perche’ una statua dedicata alle donne afghane coperta da un burqa?
Le immagini e i racconti che ci arrivano dall’Afganistan, Paese occupato militarmente da Usa e Nato per 20 anni, sono raccapriccianti, soprattutto per le donne e le bambine. I Talebani, legati alla monarchia Saudita, altro alleato USA, sono un esercito di invasati, tagliagole, patriarcali, misogini e maschilisti. Non si può stare inermi davanti alla tv o ai social. Un’artista è anche una comunicatrice pubblica e ha, quindi, l’obbligo etico, di veicolare un messaggio di solidarietà, di vicinanza. Sento il dovere di dire la mia, di segnalare e partecipare al dolore delle donne afghane.
Come nasce l’opera?
Non avevo bene in mente che tipo di opera fare. Quando è venuta l’idea, ho recuperato materiali di installazioni e performance di 10 anni fa e, con un po’ di fretta, l’opera era pronta dopo 24 ore.
Si aspettava questa risposta da parte della gente?
La risposta sul posto è stata positiva, anche perché l’installazione è imponente e traspira dolore, è drammatica. Viceversa, sui social, dove si perde di vista la realtà e la materialità, sono fioccati insulti e aggressioni da destra e da sinistra. Da picchiatori da tastiera e da influencer che non hanno voluto recepire il messaggio.
Le istituzioni hanno accettato la sua installazione? Che rapporto ha con loro?
Non avevo permessi, io mi ritengo anarchica. Ho realizzato l’opera in laboratorio e poi l’ho posizionata nel luogo che avevo scelto, prima che mi fosse impedito. In passato ho collaborato e realizzato esposizioni con le istituzioni (qualche patrocinio e nulla più). Ma le istituzioni sono ingessate mentre l’arte deve essere libera. L’arte convenzionale è quella delle gallerie. Ci sono anche cosiddetti street artist al servizio di multinazionali. L’arte che non graffia, che non da’ fastidio, che non induce alla riflessione non è pura. Può essere gradevole, estetica, ma convenzionale e asservita al business.
Cosa combatte?
Cerco con le mie opere di far passare il messaggio contro ogni prevaricazione, contro il potere che schiaccia i più fragili, il patriarcato, i nuovi fascismi. Il fuoco dell’arte e il bisogno di esprimermi si accende quando assisto a ingiustizie, a violenze su indifesi, ai soprusi o all’idiozia del potere. In quei casi, mi attivo con tutti gli strumenti a disposizione. Oggetti da scenografia, manichini, croci, bare, sangue finto e poi tele, carta, pennelli, spray. Di nascosto produco anche un’arte mia personale, intima, fatta di angosce e gioie, di animali, di donne, baci saffici, ritratti psicologici. Uso anche le tele e i colori ad olio.
Qual è il suo modello?
Ovviamente Banksy, schierato, geniale e sempre chiaro e sul pezzo, dove serve. Ma anche Shamsia Hassani, la street artist afghana che nonostante tutto continua a portare avanti la sua arte dando voce alle donne sui muri di Kabul rischiando la vita. Guardando al passato il mio cuore e i miei occhi si illuminano per Frida Khalo e Artemisia Gentileschi. In letteratura de Beauvoir, Pinkola Estès, Murgia e tutte le scrittrici femministe.